Essere pilota di una macchina da corsa e il sogno dei ragazzi di ogni età e ogni paese del mondo, che però, solo pochi privilegiati riescono a realizzare, confrontando la propria abilità portata ai limiti, con mezzo meccanico in pista. Diventare poi corridore vero, pilota ufficiale di una Scuderia importante e feudo riservato ad un’élite davvero ristretta, dotata di talento non comune e riservato a pochi. Nella rosa dei nomi dei piloti italiani, Gian Luigi Picchi, pilota Tiburtino è da tutti considerato un fenomeno, che a cavallo degli anni ’60-’70, rimase prodigio unico, e nel breve arco della sua carriera agonistica professionale, riuscì a conquistare la memoria collettiva come campione che vinceva tutto, indipendentemente dal mezzo che gli era affidato, indipendentemente dalla concorrenza o le condizioni del circuito. Descritto all’epoca come “fattore vincente”, “acquanauta, Re dei circuiti bagnati”, e il “pilota con le ali di gabbiano”, nei testi delle riviste dedicate all’auto sport, Picchi è stato pilota con ininterrotta sequenza dei successi, dal campionato nazionale di karting in 1963, poi quello europeo in 1965, diventando vicecampione del K250 in 1966, campione del F850 (pilota ufficiale De Sanctis) in 1968, campione in F3 (pilota ufficiale Tecno) in 1969, vicecampione europeo nel campionato Turismo Gruppo 2 (pilota ufficiale Autodelta), e infine campione europeo Turismo 1° Divisione (sempre come pilota ufficiale Autodelta), realizzando così un’incredibile palmares con percentuale di vittorie, mai conseguita prima di lui. Picchi è risultato vincitore in 44% delle corse in quali era partito, e con diversi tipi delle vetture, a ruote scoperte o con la carrozzeria chiusa. Quando si descrive un pilota, si esaltano la sua passione, la sua furia agonistica, bravura, coraggio e dedizione, ma si trascura spesso la sua dimensione umana, che però rimane la componente principale nel distinguere un campione dal semplice appassionato sognatore. Un pilota campione è la somma di complesse e raffinate proprietà fisiche e mentali, che solo in perfetta simbiosi con il mezzo meccanico riescono a differenziare un asso dal semplice conduttore dell’automobile. In uno sport determinato dalla meccanica, sono piccole, spesso impercettibili interazioni con la vettura, sempre diverse e sempre proprie dei vari piloti, che fanno la differenza e demarcano loro valori specifici. La verità è che bravo pilota corre come vive. Gli stati d'animo, e le gesta del conduttore in un potentissimo mezzo meccanico che non perdona il pur minimo errore, si basano esclusivamente sulla sua concentrazione, suo concetto mentale dell’agonismo e la sua intelligenza. La preparazione fisica è importante ma da sola non determina nulla. La capacità di elaborare elevatissimo numero di dati che pista e la vettura gli comunicano, e tramutarli in governo della vettura e la chiave della vittoria. Non sono i più veloci in pista in certe fasi di gara, più spregiudicati di fronte alle sfide, più temerari nelle situazioni critiche, quelli che tagliano traguardo per primi. Picchi aveva capito queste regole di lotta, e vinceva con la concentrazione maggiore, giusta analisi della situazione e la reazione appropriata. Sapeva ponderare il rischio, e calcolare i veri limiti, proprio e quello del mezzo, vincendo soprattutto con illimitato senso del sacrificio dedicato ad ogni prova in pista. Corridori si possono generalmente dividere in due categorie. Piloti con innato talento naturale il cui sensi si propagano in ogni organo meccanico della macchina, che sentono la pista come il loro habitat naturale, nel quale si muovono e comportano con assoluta disinvoltura, ed i piloti che con volontà, forza del carattere e lungo paziente lavoro hanno sviluppato quell’insieme che li fa versatili e compiuti corridori, nonché ottimi esperti del mezzo che guidano. Sono solo quelli del primo gruppo che hanno le corone d’alloro nel proprio DNA, e diventano campioni. Gli annali e gli archivi che conservano nomi, graduatorie ed i curriculum dei quasi tutti i “grandi” del passato, confermano questo giudizio. È pur vero che ogni stagione agonistica creava il proprio campione, il Re che la propria corona conquistava sul campo e portava con merito. Picchi passò come la meteora nel firmamento delle corse, rimasto per la propria decisione un periodo troppo breve per arrivare a tutte le vette che poteva sicuramente raggiungere. Gli appassionati dell’automobilismo ricordano la sua decisione unica di uscire dall’anticamera dell’Olimpo, ritirandosi dalle corse, già campione e già stella di prima grandezza, lasciando delusi e increduli suoi ammiratori. Oggi, a distanza di anni la sua decisione suona abbastanza logica. Pilota sensibile e intelligente, nonostante sua giovane età all’epoca, aveva già testimoniato tanti, troppi lutti in uno sport crudele e spietato, che ancora lontano dall’elementare sicurezza in pista, mieteva un numero elevato dei sacrifici dei propri adepti. Nella storia dell’auto sport italiano, la sua decisione rimane comunque un fenomeno isolato, forse la conferma unica dell’alto grado di capacità intellettiva di intuire possibile futuro. Con proprio senso dell’agonismo, senza clamore, senza scandali, quasi in sordina, vinceva in ogni tipo di competizione e con lo stesso senso di misura, seppe annunciare il proprio ritiro spiegando le sue priorità nella vita. Il suo nome già cominciava a dominare le cronache delle corse e ad attirare l’attenzione ben oltre confini nazionali, e la rapidità con la quale si era imposto nelle classifiche, non lasciava dubbi, era lui quel raro talento naturale che distingue il campione. Per i più, il suo abbandono delle corse era inspiegabile, visto che la sua sequenza impressionante delle vittorie gli apriva tutte le porte. Però, era proprio il grande Carlo Chiti che lo volle come pilota ufficiale dell’Autodelta ad avvalorare la sua decisione dicendogli in un colloquio privato che i piloti sono diventati carne da canone, e che la decisione di privilegiare la famiglia era ineccepibile. Ambiente che Picchi lasciava era in quegli anni dominato dal campionato ETCC, le vetture che in teoria dovevano provenire dalla produzione seriale, ma che solo vagamente tradivano la parentela con le automobili che camminavano per strada, e il fascino che queste competizioni esercitavano era enorme. Le piste erano affollate e animate dal variopinto pubblico, e l’odore acre dell’olio e gomma bruciati donavano tocco esotico a quegli eventi. Nella stagione 1971, l’Autodelta era scesa in pista nella Divisione I con la micidiale GTA J 1300 che vinse in tutte le nove corse della stagione. Picchi, titolare della leggendaria GTA “Muso Giallo” (battezzata così per la sua calandra color giallo acceso), si impose come vincitore in sei delle otto massacranti corse del calendario ETCC subendo ritiri in due corse in coppia altri piloti, con rotture della macchina non addebitabili a Picchi. È incoronato campione della Divisione I, e punti da lui guadagnati assegnano anche il titolo marche all’Alfa Romeo per anno 1971. Un risultato così, nella crudele guerra fra i grossi produttori delle automobili che in lotta per la clientela, schieravano sui circuiti nelle corse delle vetture Turismo, piloti come Clark, Rindt, Stewart, Mass, Lauda, insieme ai validissimi piloti italiani come Giunti, de Adamich, Galli, Dini… confermava la fama del pilota straordinario che invincibile dominava la propria divisione. Anche il suo modo di pilotare automobile da corsa era diverso da quello che mandava in delirio il pubblico del bordopista. Nella guida di Picchi c’era poco del funambolico, ed era assente aggressività palese con duelli spettacolari fatti solo quando la corsa esigeva la sfida diretta. La sua guida era caratterizzata dalla estrema precisione, sempre entro limiti delineati della pista, e le sue pulite traiettorie non davano nell’occhio. Però, frenava sempre una frazione del secondo dopo gli avversari ed usciva dalla curva sempre con un paio di giri in più. In questo modo di pilotare con la precisione millimetrica si riconosceva la sua provenienza dal karting e la militanza con le monoposto a ruote scoperte, riconoscibile anche nella scelta delle corde con quali affrontava le curve. In un certo senso il suo modo di guidare anticipava la futura guida dei piloti in arrivo, ed era lo spartiacque fra gentleman drivers che si facevano le ossa correndo dietro istinto, e che qualche volta diventavano campioni, ed i piloti dedicati che con la estrema devozione professionale cercavano di migliorarsi, fino ad ottenere la certezza del proprio limite. Oggi è certo che Gian Luigi Picchi era uno fra i maggiori talenti che l’auto sport italiano abbia espresso, ma è altresì vero che la sua bravura di pilotare la macchina, era solo uno dei molteplici fattori che hanno contribuito alla sua formazione. La sua storia lineare, è quasi paradigma dello schema formativo di un campione, ed è anche la conferma che solo il talento supportato di paziente lavoro e passione riesce a produrre un successo certo. Picchi vinceva con tutte le vetture che gli affidavano ed in tutte le condizioni di pista. Nelle corse “bagnate” sotto la pioggia e con il fondo poco aderente, declassava gli avversari, il che rimane l’eloquente conferma del suo rapporto con la pista ed il suo concetto di guida. Picchi riusciva perfettamente a distinguere la sottile linea dopo la quale il coraggio del pilota diventava la stupidità e questa dote lo metteva al riparo dalle situazioni di rischio inutile nelle corse. La sua guida rimaneva la somma di un calcolo intelligente ed analisi della situazione fatta in pista in ogni momento della corsa. Ecco perché nel suo curriculum non ci sono spettacolari incidenti o le azioni oltre limite che insieme alla estrema correttezza e il rispetto verso altri corridori, distinguevano la sua presenza in gara. Ci si rimaneva però, stupiti dalla precisione delle sue corde nelle complesse curve, dove giro dopo giro la sua macchina passava nello stesso punto che non variava neanche di un centimetro. Questo conferma il grado di concentrazione che Picchi manteneva nel corso di una gara, dove spesso, condizionato dal mezzo, costruiva la vittoria guadagnando giro dopo giro, frazioni dei secondi. Nel 1973, l’Italia con gli ottani nelle vene ha già cominciato a disegnare i piani per i futuri trionfi del pilota di Tivoli. F2, crescente ruolo dell’Alfa Romeo e le sue 33 nel Campionato Mondiale Marchi e le offerte dei Team blasonati erano sul tavolo fino al giorno quando Picchi annunciò in modo garbato ma senza appello la decisione di ritirarsi dall’agonismo professionista. Lo shock è stato notevole ed ha causato uguale valanga di voci “sicure” che offrivano le spiegazioni del suo abbandono. La parte del mistero è rimasta intatta fino ad oggi e una spiegazione completa non l’ha data neanche Picchi. Rimane però, che anche in rare occasioni quando tornava in pista nelle corse da lui accettate, vinceva con la stessa apparentemente disinvolta facilità, fedele al vecchio detto Italiano: Buon sangue non mente.
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