50 Anni Fa la Tragedia di Ignazio Giunti
Testo di Roberto Motta
La morte di Ignazio Giunti, promessa dell’automobilismo italiano, lasciò un grandissimo vuoto e un rimpianto che taluni appassionati vivono ancora oggi.
Ignazio Giunti, era nato a Roma in una famiglia nobile, era uno dei migliori piloti del suo tempo. Irruente, spettacolare e scanzonato. Dopo essersi messo in luce nelle gare minori, divenne pilota ufficiale dell’Alfa Romeo che lo portò al professionismo con la Giulia GTA.
Al volante della vettura milanese, Giunti ottenne risultati importanti, come la vittoria nella 4h di Budapest, il 2° Posto nella Hill Climb Mont Ventoux e il 3° posto nel GP del Mugello del 1966.
Nella stagione 1967, l’Alfa Romeo gli assegnò il compito di vincere il Campionato Europeo della montagna, e Ignazio non deluse le attese: dopo un 2° posto nella prima gara di campionato, conquistò il titolo vincendo tutte le gare cui prese parte.
Va ricordato che in questo periodo i piloti dell’Autodelta rappresentavano i migliori piloti dell’automobilismo italiano dell’epoca, e che l’Autodelta era una squadra in cui i piloti vivevano in un ambiente sereno, privo di intrighi e favoritismi.
In questo ambiente Giunti, e i suoi giovani colleghi, divennero sempre più veloci e competitivi e, quando la casa del Biscione esordì con la 33 da 2 litri, nel mondiale Sport Prototipi, fu naturale che anche il pilota romano fosse chiamato a condurre in gara il nuovo prototipo.
Ricordiamo che a quei tempi le gare riservate ai prototipi avevano un seguito simile, e tal volta superiore, a quello della F1.
Il gareggiare con una vettura di maggior potenza esaltò ancor di più le doti di guida di Giunti, che in coppia con Nanni Galli, ottenne ottimi risultati, culminati con il secondo posto sul circuito stradale delle Madonie alla Targa Florio.
La stagione del 1968, iniziò in modo negativo per Giunti, che a Daytona Beach ebbe un incidente che lo costrinse ad abbandonare le competizioni per un breve periodo.
Tornò in gara alla Targa Florio, ancora convalescente e con le ferite al braccio non ancora rimarginate, esaltò gli appassionati con una guida spettacolare; in copia con Galli sfiorò la vittoria assoluta cogliendo il 2° posto alle spalle della più potente Porsche di Vic Elford.
La copia Giunti-Galli conquistò la vittoria di classe nelle due gare più importanti del calendario mondiale: la 1000 Chilometri del Nürburgring e la 24 Ore di Le Mans. Ignazio vinse poi il Gran Premio della Repubblica a Vallelunga e fu il più veloce sia al Mugello, che alla 500 Km di Imola, dove però i risultati finali furono condizionati da problemi tecnici.
Nel 1969, Giunti corse ancora per l’Autodelta che gli affidò la 33/3, vettura bellissima ma difficile da guidare.
Alla fine del 1969, Enzo Ferrari lo convocò per affidargli una delle sue vetture.
Le trattative furono veloci e, nel 1970, Giunti fu al volante della Ferrari 512 sport-prototipo.
Il clima nella squadra Ferrari era difficile, ben diverso da quello che Ignazio aveva lasciato all’Autodelta, anche per la forte attenzione della stampa italiana che era sempre alla ricerca di informazioni e pettegolezzi.
Per la 512 fu una stagione da dimenticare, e fu sonoramente battuta dalla Porsche 917; La 512 vinse una sola gara, la 12 Ore di Sebring con Giunti, Andretti e Vaccarella.
Alla Ferrari Giunti divenne sempre più seguito dai media e dagli appassionati e, l’ingegner Ferrari, gli offrì la possibilità di debuttare nel giugno dello stesso anno in F1, sul difficile circuito di Spa.
Il debutto fu positivo, e Giunti concluse la sua gara al quarto posto, conquistando i primi punti mondiali per la 312B con il nuovo motore boxer 12 cilindri.
Nelle gare successive, Giunti si alternò con Clay Regazzoni al fianco di Jacky Ickx nel Grand Prix di Francia, Grand Prix d’Austria e prese parte al Grand Prix d’Italia a Monza con Regazzoni e Ickx.
Curiosamente, Giunti finì la stagione come la aveva iniziata, con una vittoria; alla guida della Ferrari 512M-1010 vinse ‘The Thirteenth Rand Daily Mail Nine Hour Endurance Race’ a Kyalami, precedendo la Porsche 917.
A fine stagione, fu proclamato Campione Italiano assoluto.
Per la stagione 1971 la Ferrari gli affido la nuova 312P con motore boxer, vettura che lo stesso Ferrari indicò come…’una monoposto matrimoniale’.
Il 10 gennaio 1971, alla 1000 km di Buenos Aires, fu iscritta una sola 312P per Giunti e Merzario. La gara fu teatro di una delle più brutte storie dell’automobilismo sportivo.
Partito con il 2° tempo in prova, Giunti andò all’attacco delle 917 ufficiali e conquistò saldamente la prima posizione.
La Ferrari sembrava quindi destinata a vincere, ma accadde l’impensabile.
La Matra MS 660 era rimasta in panne per mancanza di benzina, e Jean Pierre Beltoise, pilota esperto e testardo, decise di spingere la vettura ai box.
In modo criminale, si mise al centro della pista.
Incuranti della pericolosità della situazione, né il direttore di gara né i commissari intervennero per risolvere la pericolosa situazione.
Così, mentre Beltoise si trovava in traiettoria nella curva che immetteva sul rettilineo d’arrivo, curva che si affrontava a oltre 200 km/h, arrivarono due Ferrari, la 512M della Scuderia Filipinetti che stava per essere doppiata e la 312P di Giunti, più bassa della 512, che aveva una visuale anteriore ridotta.
Quando Parkes si trovò improvvisamente l’ostacolo, scartò di lato, mentre Giunti che gli era praticamente in coda, non vide l’ostacolo e inevitabilmente lo colpì.
L’urto divelse la parte destra della vettura che fu subito avvolta dalle fiamme, mentre Beltoise che era alla sinistra della sua Matra rimase miracolosamente illeso.
Nell’impatto, Giunti rimase bloccato all’interno dell’abitacolo, dai rottami del telaio e dalle cinture di sicurezza, mentre i vapori presenti nei serbatoi di carburante causarono un’esplosione.
Quando i vigili del fuoco riuscirono a domare l’incendio, i soccorritori estrassero il pilota, che era privo di coscienza e non respirava.
I medici riuscirono a rianimarlo con un massaggio cardiaco e lo caricarono su una ambulanza per trasportato al Policlinico Fernandez.
Purtroppo, la situazione precipitò e Giunti arrivò all’ospedale privo di vita per le ustioni riportate.
Il referto fu terribile, la vittima presentava ustioni di terzo grado per oltre il 60% del corpo, e altrettanto gravi erano le fratture subite alle vertebre cervicali oltre allo scompenso cardiaco provocato dallo choc dell’impatto.
Il drammatico incidente, e quella sua folle dinamica, diedero vita ad ampio dibattito internazionale che contribuì in modo decisivo a incrementare la sicurezza nelle corse.
La morte di Ignazio Giunti, privò gli appassionati italiani di un potenziale campione del mondo e lasciò un grandissimo rimpianto, che taluni appassionati vivono ancora oggi.
Il modo delle corse, e le corse stesse, erano molto diverse da quelle odierne, e di quel periodo storico rimangono aspetti che nelle attuali competizioni sono poco percepiti; il rispetto per l’avversario, il rischio e la morte.
Ne è un esempio l’incidente tra Max Verstappen e Lewis Hamilton durante il Grand Prix d’Italia a Monza. Incidente che, ai tempi, sarebbe stato inconcepibile per la dinamica, e mortale per entrambi i piloti per la diversa sicurezza delle vetture dei tempi.
La morte era considerata ancora un elemento intrinseco all’automobilismo che, per questo, era ritenuto uno sport epico, e i suoi protagonisti, i piloti, erano visti come eroici condottieri, e definiti ‘Cavalieri del Rischio’.
La generazione di Ignazio Giunti fu rappresentata da diversi dei migliori piloti della storia dell’automobilismo, ma fu purtroppo cancellata da una serie incredibile di incidenti mortali. Lo stesso anno perirono in gara due grandi piloti Jo Siffert e Pedro Rodriguez.