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by Vladimir Pajevic


Senior Autodelta Historian

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Un Ricordo Lontano

 

Era una di quelle brutte giornate d'inverno che solo febbraio milanese può generare. 

Il cielo di un triste grigiore con invisibile fredda pioggerella e le oasi di neve sporca ai margini delle strade della Milano che lavora e produce incurante delle intemperie. 

Eh sì, Milano in quei giorni, non era certamente l'immagine da mandare al turista intento a vagabondare nei paesaggi meno conosciuti del Bel Paese. 

Da tempo chiedevo all'amico Ignazio Giunti di farmi conoscere il Grande Capo, “lo Zio” Chiti, come lo chiamavano con manifesto amore e simpatia, i ‘suoi ragazzi’, e la gente dell’Autodelta, e finalmente, Giunti aveva organizzato l’incontro.

All'appuntamento ci siamo presentati nel regno corsaiolo dell'Alfa Romeo a Settimo Milanese, dove si entrava direttamente dalla trafficatissima strada Enrico Fermi, e nulla indicava la già consolidata fama della piccola fabbrica, dove nascevano temibili bolidi con il quadrifoglio sul fianco. 

Niente a vedere con la sobria magnificenza teutonica degli edifici della Porsche o curati dintorni delle blasonate fabbrichette inglesi. Dalla strada spiccavano solo i tetti dei grossi hangar e un lungo muro nascondeva dagli occhi curiosi quell’affascinante mondo. 

Una volta inghiottiti dalle mura, si vedeva disadorno cortile adibito per il parcheggio dei dipendenti e l'ingresso della palazzina amministrativa che accoglieva anche i numerosi clienti privati, che alla fonte compravano miracolosi pezzi Autodelta, in grado di trasformare le loro tranquille berline in macchine da pista. 

Da quel cortile cominciava la zona invalicabile dove solo ai pochi mortali fu concesso il privilegio di passeggiare liberi. Autodelta era un mondo off limite aperto solo agli iniziati di quel strano mestiere di creare miracoli.

Carlo Chiti, il Capo Supremo di questo magico mondo era in serio ritardo in arrivo da Arese, e Giunti fuori vista, da qualche parte nelle officine a ricontrollare la sua GTV “di servizio”. 

In attesa, io nel cortile cercavo di stringere amicizia con un grosso, zoppo spinone, incredibilmente sporco e incredibilmente coccolone che evidentemente era uno di casa all’Autodelta. Il grande cane che forse aveva il manto bianco ormai tinto di tutte le sporcizie di una fabbrica di automobili, tranquillo e paziente stava seduto sotto impercettibile pioggia accettando le mie carezze che lasciavano sottile strato di umido e di unto sul palmo. Aveva uno sguardo tenero e dolce e rifletteva il basso e grigio cielo nelle sue scure pupille.

“Noi lo chiamiamo Fidel, per una certa somiglianza, ma e poco rivoluzionario”, ho sentito la voce dietro di me dette con inconfondibile pronuncia toscana, 

“E se proprio ci tiene glielo regaliamo…”. 

Girandomi ho visto una figura massiccia chiusa nel mantello abbottonato e con la coppola tirata in basso per proteggersi il volto. Contro l'ingresso della palazzina sembrava ancor più grande, quasi un gigante. Chissà per quanto tempo mi osservava, ho pensato sorpreso dalla sua presenza. 

“Suvvia, venga dentro”, disse semplicemente, 

“Giunti l'ho già incontrato”. 

Avvicinandomi alla sua mano tesa per il saluto, guardai con il sospetto la mia ancora bagnata dalle carezze al Fidel, ma Chiti risolse il problema e disse ridendo 

“Non sono certo i cani che fanno questo mondo sporco…”. 

Sua stretta era decisa e forte. Avevo già la sensazione di conoscerlo da chi sa quando. Entrati nel caldo corridoio della palazzina faceva strada salutando tutti che incontravamo e non potevo fare a meno di notare una affettuosa reverenza dei dipendenti verso il “direttore”. 

Giunti ci aspettava davanti all’ufficio, uno spazio modestamente arredato con i muri tappezzati dalle fotografie in bianco e nero di vetture uscite dai capannoni dell’Autodelta. Un altro cane, una piccola cagnetta ci faceva le feste saltellando intorno al grande uomo e poi si posò padrona sul divano previsto per gli ospiti. Qualche cortese frase di rito e poi ci siamo ritrovati seduti ad assorbire il caldo della stanza. 

“E’ così, giovanotto”, disse Chiti sorridendo, 

“lei si è messo in testa idea delle corse, nonostante Ignazio sostiene fermamente che sarebbe meglio che lei si tenga stretti per le mani i pennelli, piuttosto che lo sterzo”. 

Non trovavo nessuna risposta idonea ma lo pregai di darmi del tu, perché quel rapporto di stima formale mi sembrava innaturale. Poi, Chiti mi domandò sulle mie origini, ed il mio vagabondare per l’Europa, visto che gli avevo accennato del mio vivere fra Belgrado, Zurigo e Milano… 

Era un interlocutore abile che ascoltava attentamente le risposte ed il suo modo di gestire conversazione era familiare ma sempre educato. Si era interessato della mia attività artistica e della mia pittura dicendo che i toscani hanno “contribuito qualcosa” a quel bel mestiere. 

Scoprivo quasi con sorpresa la sua vasta erudizione in qualsiasi tema toccato e rimasi sbalordito dalla sua analisi dell’opera di Bulgakov, chi sa come entrato nella chiacchiera, ma collegato poi con il raffinato nesso a una certa forma della pittura surrealista. Avevo impressione che in qualsiasi forma di attività umana, disponeva di informazioni giuste che padroneggia con ragionamenti propri. Attentamente evitava ogni opinione politica, ma soprattutto non era possibile toccare sua attività professionale all’infuori dei luoghi comuni sui quali peraltro non si tratteneva. 

Ero colpito dalla sua affabile semplicità nel comunicare e intuivo quale era la sua forza di coinvolgere ed assorbire la gente che sceglie. Diventava chiaro il perché di quell’incondizionato affetto che si esprimeva nei suoi confronti. 

Giunti mi aveva confidato che per quanto concerne il lavoro era serio, molto esigente e talvolta persino burbero, ma questo suo comportamento era più maschera che attitudine caratteriale. Questa descrizione gli stava a pennello, un dirigente all'antica un po’ padrone e un po’ padre che istruisce i figli.  

In quell’ufficio a Settimo Milanese, avevo appena scoperto perché era considerato una specie di genio. La piccola cagnetta che sonnecchiava sotto il suo tavolo confermava con la propria beata tranquillità tutta la forza protettiva che questo grande uomo esprimeva. Il tempo passava veloce e Chiti guardando l'orologio ci invitò come ospiti suoi al pranzo, facendo capire che il tempo dedicato al nostro incontro era scaduto. 

La sua giornata seguiva un ritmo decisamente diverso. La GTV di Ignazio sarebbe stata pronta solo nel tardo pomeriggio e così fu proprio Chiti a portarci a Milano con la sua bianca berlina. Guidava rilassato e chiacchierava con noi di cose frivoli. 

Sapevo del suo amore per gli animali e i cani in particolare e gli ho raccontato che a Belgrado ho provato con un piccolo allevamento dei cani Dalmati. Mi ha detto che non faceva distinzioni tra cani di razza e ultimo bastardino di strada. 

“Bisogna imparare dai cani di strada” disse, “loro sono costretti ad inventarsi soluzioni per sopravvivere”. 

Poi mi ha raccontato la storia di Fidel che è stato trovato mezzo morto, probabilmente colpito da qualche macchina e portato proprio sul sedile dove ero seduto io all’Autodelta e che si è ripreso miracolosamente. Mi disse che nel retro-cortile della fabbrica esisteva uno spazio adibito per cani trovati e che loro avevano il privilegio a dormire sotto le parti esclusive delle vetture da corsa in disuso.

 

Arrivati nel cuore di Milano, siamo andati al ristorante “Alla collina Pistoiese” descritto da Chiti come vera succursale del suo ufficio, dove sono state prese anche le decisioni importanti. Era un posto sobrio non privo di fascino, e lui dentro era di casa. Aveva il proprio tavolo, grande, un po’ a disparte e per il pranzo lo già aspettavano alcuni amici. 

Si mangiava molto bene “Alla collina Pistoiese”. Chiti consumava con gusto ogni pietanza della cucina tradizionale, spiegando e commentando tutto, e il vino, Chianti Montalbano, era straordinario. Uno degli ospiti, ingegnere come Chiti e Pistoiese come Chiti, un suo carissimo amico dai giorni della scuola, raccontava le storie d'infanzia scoprendo divertenti lati umani dell’amico, dicendo che la scelta di diventare progettista delle automobili da corsa, era del tutto inaspettata. 

Chiti disse ridendo che decisiva per la sua carriera del progettista delle macchine, era la sua moglie Lina, e che per rimanerle vicino a Milano avrebbe accettato l'offerta dell’Alfa, invece di dedicarsi alla progettazione aeronautica che era la sua scelta di studi. Io gli ho chiesto dell’esperienza alla Ferrari, non nascondendo la mia ammirazione per il Drake. 

Lui di Ferrari aveva le parole di sincera stima e lo descrisse come un uomo che decideva tutto, proprio tutto da solo. Un misto di cocciuto contadino emiliano e un padrone feudale, che questo suo atteggiamento sfruttava come pregio in proprio favore, ma che era anche il suo difetto, perché non si poteva avere sempre ragione in tutto. Il nostro pomeriggio di chiacchiere volgeva al termine. 

Chiti mi disse che era contento di avermi conosciuto, e sono uscito con Giunti che doveva ritornare a Settimo per riprendersi la macchina. Più tardi quella sera mi disse che il pranzo con Grande Capo anche per lui è stata un’esperienza nuova, e che passare con Chiti le distese ore in piacevoli chiacchiere al infuori dell’impegno professionale, non era cosa comune. 

Passeggiando lentamente nella fredda umidità della serata Milanese, ho avuto l'impressione di essermi arricchito di un tesoro inestimabile. Conoscere Chiti era da tempo il mio desiderio, e quel primo incontro mi ha lasciato un indelebile segno nella memoria. 

Ora, con il passare degli anni, molti protagonisti di quegli spensierati giorni della mia gioventù, non ci sono più e vivono solo nei ricordi. 

Sono grato alla vita di averli regalati.


--Vladimir Pajevic


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